Questo romanzo è una sorta di sudario di parole che l'autrice tesse per Stefania, la madre, in sostituzione del telo funerario con il quale avrebbe voluto ricoprirne il corpo. Tra le righe trasuda il senso di colpa di chi è sopravvissuto a un'intera famiglia: la madre, certo, ma anche il padre e le sorelline. Nel genocidio del Ruanda, infatti, l'autrice ha perso trentasette membri della propria famiglia, ma la morte è seguita a una lunga vigilia, iniziata con la deportazione degli anni sessanta in una sperduta e arida regione del paese, molto diversa dalle verdi colline sulle quali intere generazioni di pastori tutsi erano nate e cresciute. Tra riflessioni e aneddotica sulla salute, l'alimentazione, la sessualità, l'istruzione, l'agricoltura e le usanze, non solo l'autrice riporta in vita la madre, una donna che non ha mai davvero calzato in vita sua un paio di scarpe, ma un'intera civiltà orale, che la storia rischia di archiviare del tutto. Il racconto rievoca la solidarietà tra i tutsi in esilio, la centralità delle donne nella cultura e nelle tradizioni del paese, indebolite dall'arrivo dei coloni europei e, in secondo momento, dai governi hutu sostenuti dai belgi e dai missionari cattolici. Alle soglie del genocidio del 1994, mentre più di un'avvisaglia anticipa quel che sta per accadere, i tutsi continuano a rivendicare il proprio diritto a esistere. Un diritto a un passo dall'essere leso, per il qua-le la letteratura è il più prezioso dei risarcimenti.